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Problemi traduttivi di termini giuridici in relazione al loro sistema di appartenenza

 
     
  Ingrid Grüner, laureata in scienze giuridiche presso l’Università di Trieste  
     
     
 

           La traduzione in generale, e la traduzione giuridica nello specifico, può presentare difficoltà per quanto riguarda i cosiddetti false friends, cioè quei termini che sembrano avere significati simili in due lingue (nel nostro caso, inglese e italiano), mentre corrispondono a concetti anche molto diversi. Un esempio può essere morbid, che a causa dell’assonanza con la parola italiana ‘morbido’ può trarre in inganno, dato che significa, in realtà, ‘morboso’.
          Questioni più complesse possono sorgere in relazione alla traduzione di materiale concernente il diritto; in tale ambito, le problematiche si articolano in duplice direzione. In primo luogo, nell’inglese giuridico esistono espressioni o concetti che presentano un termine corrispondente in italiano: la prima difficoltà riguarderà, quindi, la ricerca di tale corrispondenza. Secondariamente, la reale validità della suddetta corrispondenza tra il termine inglese e quello italiano dovrà essere vagliata alla luce del sistema giuridico di appartenenza della parola in oggetto: espressioni con significato apparentemente simile, o sostanzialmente equivalente, se messe in relazione al contesto dal quale hanno origine, possono rivelare profonde differenze.
            Per esporre tali difficoltà, verranno utilizzati tre esempi: i primi due riguardano l’analisi comparatistica di altrettanti termini appartenenti al sistema costituzionale statunitense e a quello italiano; il terzo esempio tratterà un argomento più generale, quale la rule of law.
           
            Il primo esempio qui portato per illustrare in modo concreto il problema della traduzione di termini giuridici e del loro significato analizzato nel complesso del sistema a cui appartengono è quello dell’impeachment.
            All’art. 2, sez. 4, della Costituzione degli Stati Uniti d’America troviamo la seguente statuizione: “The President, Vice President and all civil Officers of the Unites States, shall be removed from office on impeachment for, and conviction of, treason, bribery, or other high crimes and misdemeanors”.
            Nel sistema americano, l’espressione impeachment si riferisce alla rimozione di titolari di alte cariche pubbliche, appartenenti al potere esecutivo nonché a quello giudiziario, in ipotesi di responsabilità in casi di tradimento, corruzione o per altri gravi reati. L’aspetto che ai fini della presente analisi viene in rilievo si concreta nella constatazione che nel sistema costituzionale statunitense, i poteri ai quali si applicano le procedure di impeachment sono quello esecutivo e quello giudiziario. Ciò dovrà essere preso in considerazione nel tentativo di tradurre tale concetto; la traduzione solitamente adottata è ‘messa in stato d’accusa’. Il problema che sorge nell’utilizzare tale espressione nella traduzione dall’inglese all’italiano è costituito dalla presenza, nel sistema italiano, di una procedura che porta lo stesso nome. Vi è, però, una importante differenza: la messa in stato d’accusa, prevista dalla Costituzione italiana all’art. 90, si riferisce al Presidente della Repubblica, figura che non corrisponde a quella del Presidente degli Stati Uniti d’America. In Italia, infatti, il Presidente della Repubblica non è ascrivibile al potere esecutivo; potere del quale il Presidente degli Stati Uniti rappresenta il vertice.
            Il Presidente degli Stati Uniti, in base all’art. 2 della Costituzione statunitense, è a capo delle forze armate, ha il potere di nominare i funzionari pubblici, ha un ruolo fondamentale nel procedimento legislativo. Oltre a ciò, ampi poteri gli spettano in materia di politica estera. Svolge, quindi, una funzione di guida del paese, il cui apparato costituzionale tende a “sparire” sotto a una figura di così grande rilievo nel sistema stesso.
            Nella Costituzione italiana, è dedicato al Presidente della Repubblica il titolo II, parte II, e più precisamente gli artt. 83-91. I poteri del Capo dello Stato sono suddivisi tra atti propri, ascrivibili cioè alla sola figura del Presidente della Repubblica, e atti adottati in accordo con il Governo. Il ruolo del Presidente può, in concreto, variare a seconda degli equilibri del sistema politico: potrà espandersi in ipotesi di instabilità o, per converso, diminuire in periodo di maggiore stabilità politica. In ogni caso, la funzione di tale figura è definibile come “notarile”, cioè di garanzia del corretto funzionamento del sistema e di controllo del rispetto della Costituzione.
            Per i motivi suddetti, risulta pacifico come le due figure non possano essere parificate: da ciò derivano direttamente anche le diverse implicazioni circa, rispettivamente, la messa in stato d’accusa italiana e l’impeachment statunitense. Di conseguenza, il termine impeachment non verrà solitamente tradotto.
           
            La seconda espressione qui analizzata è delegation, presa in considerazione parallelamente al concetto di delega.
            All’art. 76, la Costituzione italiana attribuisce al Parlamento la facoltà di delegare al Governo poteri legislativi. La delega legislativa è prevista anche nel sistema costituzionale americano, benché profonde siano le differenze tra questi due termini.
            In primo luogo, negli Stati Uniti il Congresso può delegare poteri legislativi non solo al ramo esecutivo, ma anche a figure di natura diversa, quali, ad esempio, autorità amministrative o indipendenti, oppure a organi giudiziari. Per converso, in Italia è solo al Governo che il potere legislativo può venire delegato.
            Una seconda diversità riguarda l’atto formale con il quale viene compiuta la delega. Nel sistema italiano ha un ruolo centrale la forma di tale atto, il quale ha forza di legge. Nel sistema statunitense, la delega può essere realizzata anche con strumenti diversi dall’atto avente forza di legge, in quanto si tratta solo di uno “spostamento” della funzione legislativa, piuttosto che di una vera e propria attribuzione del potere di legiferare a organi diversi dal Congresso.
            Da ciò si può agevolmente concludere circa la sostanziale impossibilità di tradurre legislative delegation con ‘delega legislativa’, in quanto le caratteristiche proprie dei due sistemi costituzionali attribuiscono a tali termini significati differenti.


            Il terzo concetto utilizzato ai fini della presente analisi è rule of law, preso qui in considerazione con riguardo alla sua portata di dottrina dei limiti giuridici, e in relazione all’idea europeo-continentale di principio di legalità.
            La rule of law è uno degli aspetti caratterizzanti dell’organizzazione istituzionale dei paesi di common law. Com’è noto, nei luoghi ove vige tale sistema, viene attribuito maggior valore al precedente giurisprudenziale rispetto ai paesi detti di civil law, nei quali al contrario è dato rilievo primario alla legge codificata.
            L’origine della rule of law viene fatta risalire all’Inghilterra, nel 1200-1300 circa. In tale periodo, le corti giurisdizionali si staccarono dalla persona del Re e dal suo governo, portando così a una evoluzione fondamentale dell’intero sistema di common law: sorsero infatti sia l’equity che il concetto stesso di rule of law. Nel momento in cui non fu più la giustizia regia a legittimare le corti, queste trovarono fondamento del proprio operato nel patrimonio consuetudinario del paese e dei common lawyers. Da questo si sviluppò l’idea che anche la monarchia dovesse essere sottomessa alla rule of law: e ciò fu oggetto di forti contese tra Parlamento e Re. È solo nel 1600, però, che si assiste al pieno sviluppo della rule of law intesa in senso moderno, con la conseguente piena indipendenza del potere giudiziario.
            Per darne una definizione, la rule of law è una dottrina della limitazione del potere giuridico. Tale concetto può essere tradotto con ‘governo del diritto’: come, però, si è constatato con riguardo ad altri termini, e ancor più per una espressione di importanza strutturale quale quella in oggetto, bisogna prestare attenzione al contesto giuridico al quale ci si riferisce. Rule of law è sì una dottrina della limitazione del potere, ma il rinvio non è da farsi a tutta la tradizione costituzionalista continentale del governo delle leggi, bensì alla specifica tradizione del common law inglese come tratteggiato poc’anzi.
            Alla fine dell’Ottocento, nel suo libro Introduzione allo studio del diritto costituzionale,Albert Dicey formulò la dottrina della rule of law, identificandone tre significati: il primo collegato al principio di legalità continentale, il secondo di eguaglianza dinanzi alla legge, e il terzo di riconoscimento giudiziale dei diritti individuali. Verrà qui preso in considerazione il primo dei tre significati.
            Il principio di legalità inteso nel senso proprio dei paesi a tradizione codicistica, postula che nessuno possa essere punito o colpito nella persona o nei beni se non sulla base della legge. Il common law inglese è paradigma del diritto di produzione non legislativa: non è, quindi, corretto dire che in tale sistema si possa essere puniti o colpiti nella persona o nei beni sulla base della legge, bensì sulla base del diritto, comprensivo del precedente giurisprudenziale.
            Secondo Jeremy Bentham, utilitarista inglese dell’Ottocento, il common law nella sua interezza, e specie in ambito penale, è una continua violazione del principio di legalità, in quanto la punizione è basata sui precedenti e non sulla legge scritta. Ove si volesse applicare il concetto del principio di legalità continentale a un sistema fondato sulla judge-made law, tale tesi non potrebbe che essere condivisa: ma, senza entrare nel campo d’indagine proprio della comparazione giuridica, anche ai fini della traduzione non possono essere ignorate le profonde differenze tra sistemi di common e di civil law. Ed è proprio alla luce delle caratteristiche descritte, seppur in modo sommario e incidentale, che si può giungere alla conclusione che non sarebbe corretta una traduzione del concetto di rule of law con ‘principio di legalità’. 


            La breve analisi condotta porta, quindi, a rilevare una sostanziale difficoltà di traduzione dei termini giuridici in genere, soprattutto quando questi si riferiscono - come spesso può accadere - a concetti, piuttosto che a singole parole. Non presenta, infatti, eccessive difficoltà la prima delle due operazioni menzionate in apertura: la ricerca, cioè, della corrispondenza tra una parola in italiano e una in inglese, pure se appartenenti al campo del diritto. È la seconda delle suddette operazioni, quindi, a sollevare problemi; ed è questo l’aspetto forse più caratteristico della traduzione giuridica: l’analisi degli elementi distintivi dei sistemi di appartenenza dei singoli termini, necessaria e imprescindibile per non cadere in erronee considerazioni circa portata e significato dei concetti che ci si appresta a tradurre.

 

 

 

Bibliografia


Barberis M., Etica per giuristi, Editori Laterza, 2006.
Bin R., Pitruzzella G., Diritto costituzionale, Giappichelli Editore, 2004.
Griffin S., Il costituzionalismo americano, Il Mulino, 2003.
Mattei U., Il modello di common law, Giappichelli editore, 2004.    

 
     
 
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