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I trust in Italia: considerazioni linguistiche

 
     
  Barbara Arrighetti, traduttrice specializzata in ambito legale e finanziario, Socio Certificato ATA inglese-italiano  
     
     
 

L’iniziale percezione del trust come strumento illecito al quale ricorrere per costruire meccanismi complessi che consentano di evadere o eludere le imposte, o ancora di ottenere illeciti vantaggi di natura fiscale, è rimasta radicata a lungo, ben dopo la ratifica della Convenzione dell’Aja del primo luglio 1985 in Italia (L. 16.10.1989 n. 364). Oggi, tuttavia, la situazione sta mutando e al traduttore si richiede particolare attenzione onde evitare di incappare in spiacevoli errori interpretativi.

 

Innanzitutto, la dottrina ci offre uno spunto di riflessione interessante, giacché sostiene che alla dicitura trust al singolare sia da preferirsi la forma plurale per non escludere la natura polimorfica[1] di questo istituto sconosciuto agli ordinamenti di civil law. D’altro canto è la succitata Convenzione dell’Aja a individuare la figura del cosiddetto ‘trust amorfo’ (shapeless trust) – un modello generale e astratto a cui è possibile ricondurre anche i trust istituiti nell’ambito degli ordinamenti di civil law – e pertanto l’uso del singolare è da ritenersi accettabile.

Ci si chiede quindi se sia necessario proporre un traducente per trust, ma la risposta deve essere negativa[2], proprio perché nessuna delle strutture, degli schemi di proprietà riconosciuti dal diritto italiano racchiude perfettamente in sé tutte le caratteristiche del trust, pertanto trust rimane ‘trust’ e non deve essere tradotto con ‘amministrazione fiduciaria’ o con ‘proprietà fiduciaria’ né con alcuna altra locuzione, come peraltro dimostrano i documenti di ratifica della Convenzione[3].

A titolo informativo, si ricorda che è assolutamente da evitare il termine ‘contratto’ associato a trust, che non è affatto una forma contrattuale, quanto piuttosto un fatto giuridico, che non necessita del requisito fondamentale dei contratti di diritto anglosassone che si esplicita nella consideration.

 

Ciò premesso, passiamo ora a occuparci degli aspetti squisitamente linguistici di questo istituto, basando la nostra analisi anche su una comparazione tra la versione inglese del testo della relativa Convenzione, la ratifica della stessa pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale e la traduzione proposta dall’Associazione “Il trust in Italia”. Per comodità, nelle tabelle comparative indicheremo con ‘R’ la traduzione adottata nel documento di ratifica e ‘TP’ la traduzione proposta dalla summenzionata Associazione.

 

Article 2

For the purposes of this Convention, the term “trust” refers to the legal relationship created -- inter vivos or on death -- by a person, the settlor, when assets have been placed under the control of a trustee for the benefit of a beneficiary or for a specified purpose.

 

R – Articolo 2

Ai fini della presente Convenzione, per trust s’intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato.

TP – Articolo 2

Ai fini della presente Convenzione, per trust s’intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato.

 

Da questa prima definizione emergono subito i tre soggetti protagonisti del trust e una prima, significativa, divergenza tra le due traduzioni a supporto della nostra analisi. Proprio alla luce delle caratteristiche distintive del trust, si è ritenuto, infatti, che sia da preferire l’utilizzo della parola ‘disponente’ invece di ‘costituente’ con riferimento all’atto di disposizione che di fatto costituisce il fondamento del trust e con cui il disponente si spossessa dei beni. Dunque, di solito, avremo un ‘disponente’ (settlor), almeno un ‘beneficiario’ (beneficiary) e un ‘trustee’ (trustee), e non già un amministratore fiduciario. A tale proposito pare comunemente accettata anche la traduzione ‘gestore’[4], riconducendosi appunto alla dicotomia che vige rispetto ai beni in trust tra l’amministrazione e la ‘gestione’ (management) e il ‘godimento’ (enjoyment). Nei testi anglosassoni potremmo altresì ritrovare due termini di chiara origine medievale, ossia cestui que use per trustee e cestui que trust per beneficiary (anche nella grafia cestuy).

Ricordiamo altresì che il beneficiario potrebbe non essere previsto in tipologie specifiche di trust quali il cosiddetto charitable trust, caratterizzato espressamente dall’assenza di un beneficiario dichiarato e costituito a fini di beneficenza o per scopi strettamente caritatevoli. Nonostante questa peculiarità, tuttavia, il suddetto trust non rientra nella macro categoria dei purpose trust, i ‘trust di scopo’, la cui legittimità è riconosciuta solo in determinate giurisdizioni, proprio per la mancanza del requisito di identità o identificabilità del beneficiario, l’unico in grado di dare esecuzione alle obbligazioni assunte dal trustee (la cosiddetta enforceability). Per risolvere questo problema, sempre e solo in talune giurisdizioni, si è creata una nuova figura, l’enforcer, ossia l’‘esecutore’, che deve obbligatoriamente essere prevista nell’atto istitutivo. Da trustee possono fungere anche dei soggetti appositamente creati a tal fine, quali la trust corporation o trust company, ossia una società fiduciaria che ha per oggetto della propria attività sociale o commerciale proprio la gestione dei trust e il public trustee, un organo o funzionario pubblico precostituito per fungere da trustee, da non confondere con l’amministratore fiduciario pubblico (sempre denominato public trustee) di diritto australiano, dalle funzioni ben diverse.

In ultimo, sempre a proposito dei tre soggetti principali del trust, giova ricordare che nella cosiddetta declaration of trust, ossia nel ‘trust autodichiarato’, il disponente e il trustee coincidono, pertanto non vi sarà trasferimento di beni, ma i beni in trust rimarranno di proprietà del disponente, sebbene soggetti al vincolo di destinazione che caratterizza l’istituto in oggetto.

 

Comparando le due traduzioni dell’articolo 2, emerge anche una differenza nella traduzione di trust assets, che sulla G.U. viene reso come ‘i beni del trust’, mentre nella proposta dell’Associazione diviene ‘i beni in trust’, scelta motivata dal fatto che il trust non è una persona giuridica e che pare confermata dalla formula tipica ‘costituire in trust’ riferita per l’appunto ai beni oggetto dell’atto di disposizione.

Article 2

the assets constitute a separate fund and are not a part of the trustee’s own estate;

R – Articolo 2

i beni del trust costituiscono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee;

TP – Articolo 2

i beni in trust costituiscono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee;

 

La traduzione più autorevole di separate fund, come dimostrano entrambe le citazioni, è senz’altro ‘massa distinta’, riferendosi al concetto che i beni in trust sono segregati, dove per ‘segregazione’ si intendono «posizioni soggettive le quali appartengono a un soggetto (il trustee), ma rimangono distinte e non si confondono con le vicende obbligatorie generali e quindi non possono essere oggetto delle pretese dei suoi creditori. Tale patrimonio non segue alla sua morte le regole della successione ereditaria tanto meno risente del regime matrimoniale»[5]. In inglese questa idea di segregare, contrassegnare, viene talvolta resa facendo ricorso alla parola earmarking.

 

Per il trust ci si riferisce al concetto di split ownership o dual ownership, di ‘proprietà divisa’ o addirittura di ‘sdoppiamento della proprietà’. Si avrà dunque la cosiddetta legal estate (o trust ownership) in capo al trustee, ossia la ‘proprietà legale’, detta anche formale o nominale, contrapposta alla equitable estate o beneficial ownership, ovvero la ‘proprietà sostanziale’, che spetta sempre al beneficiario. Si ricorda che la proprietà formale del trust è temporanea e destinata a riunirsi a quella sostanziale del beneficiario che è perpetua[6]. Talvolta è prevista anche la figura del protector, da tradursi come ‘guardiano’, una persona fisica o giuridica con funzioni di vigilanza e di controllo sull’effettiva applicazione di quanto disposto nel deed of trust o trust deed, ovvero nell’‘atto istitutivo del trust’, traducibile anche come ‘accordo di trust’. Accanto all’atto istitutivo, in particolare nel caso di un discretionary trust, ossia un ‘trust discrezionale’, possono coesistere una o più letters of wishes (per cui si è consolidata la traduzione di ‘lettere dei desideri’) contenenti alcune precise direttive in materia di gestione del trust impartite dal disponente.

 

In caso di disposizione dei beni in trust da parte del trustee in violazione dell’atto istitutivo, i beneficiari godono del tracing right, ossia di un ‘diritto di sequela’, che può essere fatto valere nei confronti di tutti i terzi, a esclusione del cosiddetto bona fide purchaser for value, spesso indicato in sigla come BFP, ossia il ‘terzo acquirente di buona fede a titolo oneroso’ (o dietro corrispettivo). Si tratta in sostanza della possibilità di rivendicare (recover) i beni in trust illegittimamente sottratti o venduti dal trustee. Tra gli altri rimedi posti a tutela del beneficiario troviamo il constructive trust e che si pone in essere ex lege nel caso in cui chi detiene i beni in trust non sia il trustee, ma un soggetto terzo che li detiene con la consapevolezza di tale destinazione.

 

Quando il disponente assume un comportamento illecito nei confronti del trustee, ovvero finge solamente di spogliarsi dei propri beni, ma in realtà non trasferisce nulla al trustee, conservando l’effettivo controllo sugli stessi, si ha uno sham trust, un ‘trust simulato o fittizio’, da considerarsi nullo.

Interessante a questo proposito notare come nell’isola di Jersey, luogo di elezione principe di molti trust, nella rassegna legale, ci si sia preoccupati del legame tra l’aspetto linguistico, esplicitato nella difficoltà di comprendere un idioma straniero, e la natura fittizia del trust risolvendo la questione come segue[7]:

«There is no sham if only the settlor has a subjective intention to create a sham but, due for example to linguistic difficulties in the dealings between the foreign settlor and the trustee, the trustee reasonably believes that it is to be trustee of a true trust

Sempre a livello terminologico, osserviamo, oltre a quanto già sottolineato in precedenza, che il termine situs ha assunto nel tempo la traduzione di ‘ubicazione’, da preferire al termine ‘situazione’ scelto per la versione pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale.

Article 7

In ascertaining the law with which a trust is most closely connected reference shall be made in particular to –

a) the place of administration of the trust designated by the settlor;
b) the situs of the assets of the trust;

R – Articolo 7

Per determinare la legge con cui un trust ha più stretti legami si tiene conto in particolare:

a) del luogo di amministrazione del trust designato dal costituente;

b) della situazione dei beni del trust;

TP – Articolo 7

Per determinare la legge con la quale il trust ha collegamenti più stretti, si fa riferimento in particolare:
a) al luogo di amministrazione del trust designato dal disponente;
b) alla ubicazione dei beni in trust;

 

 

Altro elemento degno di rilievo per i traduttori è recognition, così si intitola il Capitolo III della Convenzione, da tradursi letteralmente come ‘riconoscimento’, anche se secondo taluni giuristi sarebbe più corretto utilizzare un’espressione che indichi l’obbligo in capo al giudice del foro competente di applicare il diritto estero, laddove non si tratti di un trust domestico o trust interno, ossia del rapporto giuridico, avente forma di trust, posto in essere da cittadini italiani residenti in Italia sui beni situati in Italia e a favore di soggetti beneficiari italiani.

Recentemente, il trust ha conosciuto una certa notorietà sulle pagine della stampa, nella sua forma di trust mortis causa, detto anche ‘trust testamentario’ (testamentary trust), creato per l’appunto con una disposizione testamentaria e che produce i suoi effetti dal momento dell’apertura della successione. In questo caso bisognerà prestare la massima attenzione a non tradurre beneficiary come ‘erede’, giacché la posizione giuridica implicata è nettamente diversa. Sempre in ambito successorio si ritrova l’executor trustee, non già un semplice esecutore testamentario, ma un trustee che diviene proprietario dei beni con l’obbligo di adempiere a quanto indicato nel testamento e che nella giurisprudenza italiana viene indicato o con il termine inglese originale oppure ricorrendo alla formula ‘il trustee quale esecutore testamentario’.

Il trust assume innumerevoli forme e denominazioni, per cui talvolta non esistono traduzioni univoche o consolidate in lingua italiana, ma di cui cercheremo nel prosieguo di riassumere alcune delle caratteristiche salienti.

Esiste innanzitutto l’express trust, ossia il ‘trust esplicito’ o ancora ‘trust espressamente istituito’, che non equivale alla categoria di trust volontario riportata nella Convenzione. Taluni giuristi si riferiscono a questa fattispecie utilizzando l’aggettivo ‘rigoroso’. Questo trust espressamente costituito dal disponente si contrappone al già citato constructive trust, tradotto talvolta come ‘trust presunto’, e al resulting trust, che in italiano va sotto il nome di ‘trust di ritorno o residuale’, che si configura come una sorta di finzione giuridica, disposta dal giudice con sentenza o che insorge ai sensi di legge, laddove esista un rapporto caratterizzato da diritti e doveri analoghi a quelli del trust, senza che però sia fatto esplicito riferimento a detto istituto (mancando ad esempio la formula classica). Si contrappone altresì all’implied trust ossia un ‘trust implicito’ che si considera posto in essere a seguito di un comportamento concludente del disponente. Si ha invece un bare trust (detto anche simple trust, soprattutto negli Stati Uniti, o naked o passive), ossia un ‘trust nudo o trasparente’, che si caratterizza per

«un diritto pieno e incondizionato dei beneficiari a ricevere il reddito nella sua originaria e specifica conformazione. Viene quindi a crearsi, nonostante la pienezza dei poteri del trustee nell’amministrazione e nella disposizione dei beni, una sorta di “trasparenza” del flusso di reddito che si limita a passare per le mani del trustee e fluisce direttamente ai beneficiari»[8].

In questa fattispecie, spesso avente come unica funzione quella di segregare taluni beni rispetto al patrimonio personale, al trustee non spetta che il mero compito di mantenere l’intestazione dei beni. Nell’ambito dei summenzionati trust di scopo, trova spazio il non charitable purpose trust (spesso NCPT), che in italiano è stato reso come ‘trust di scopo non charitable’, ossia un trust di scopo senza alcuna finalità benefica o caritatevole o scopo pubblico, che si incontra ormai con sempre maggior frequenza in ambito societario come strumento per la detenzione di partecipazioni sociali.

Ultimo, ma non certo per importanza o frequenza il blind trust, quello che la Borsa Italiana definisce un ‘affidamento fiduciario cieco’[9], ossia un trust concepito espressamente per evitare o disciplinare il caso di conflitto di interessi che potrebbe nascere dall’affidamento di incarichi politici/pubblici a soggetti titolari di interessi individuali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

Aa.Vv., “La giurisprudenza italiana sui trust - Dal 1899 al 2005”, Quaderni della Rivista Trust e attività fiduciarie n. 4, Ipsoa, 2005.

Gazzetta Ufficiale n. 261, 8 novembre 1989.

Lupoi M., Il trust nel diritto civile, Utet, 2004.

Maritano D., “Trust e diritto italiano: uno sguardo d’insieme (tra teoria e prassi)”, in Vita Notarile, n. 1, gennaio-aprile 2005.

Semino G., “Strutturazione di un trust trasparente”, Relazione presentata in occasione del III Congresso dell’Associazione “Il trust in Italia”.

 

 

Sitografia

http://www.assotrust.it

http://www.borsaitaliana.it/documenti/rubriche/sottolalente/blind-trust.htm

http://www.diritto.it/materiali/civile/iltrust.html

http://www.filodiritto.com

http://www.jerseylaw.je/Publications/jerseylawreview/feb04/JLR0402_Hayton.aspx

http://www.il-trust-in-italia.it

 



[1] A questo proposito si vedano gli scritti di M. L. Lupoi, tra cui Il trust nel diritto civile, Utet, 2004.

[2] «I trusts sono solo e soltanto trusts e non vi è nessuna analogia con alcun istituto vigente nel nostro ordinamento o più in particolare in qualsiasi ordinamento di Civil Law. Per questa ragione qualsiasi intento di assimilazione o comparazione deve essere assolutamente scoraggiato.», Avv. Annapaola Tonelli in “I Trust: brevi cenni ed aggiornamento giurisprudenziale”, www.filodiritto.com/diritto/privato/civile/trustingenere.htm

[3] Gazzetta Ufficiale n. 261 dell’8 novembre 1989.

[4] Si veda, ad esempio, lo studio dell’Avv. Antonio Scipione apparso su Diritto e Diritto – Portale Giuridico Italiano, all’indirizzo http://www.diritto.it/materiali/civile/iltrust.html

[5] Annotazione a cura dell’avv. Elena Incisa di Camerana alla proposta di traduzione della Convenzione dell’Aja dell’Associazione “Il trust in Italia”, http://www.il-trust-in-italia.it/aja/.

[6] Aa.Vv., “La giurisprudenza italiana sui trust - Dal 1899 al 2005”, Quaderni della Rivista Trust e attività fiduciarie n. 4, Ipsoa, 2005, pag. 405.

[7] http://www.jerseylaw.je/Publications/jerseylawreview/feb04/JLR0402_Hayton.aspx

[8] G. Semino, “Strutturazione di un trust trasparente”, Relazione presentata in occasione del III Congresso dell’Associazione "Il trust in Italia”.

[9] http://www.borsaitaliana.it/documenti/rubriche/sottolalente/blind-trust.htm.

 

 
     
     
 
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